domenica, giugno 21, 2009

I giochi del potere

Silvio Berlusconi che ha bisogno di pagarsi un pubblico di belle ragazze per raccontare le sue barzellette, far vedere le foto della sua famiglia, delle sue ville, i suoi successi, con i video dei suoi interventi e poi fare anche un suo piccolo comizio è davvero patetico. Ma in fondo è l'ulteriore conferma che il bisogno di essere riconosciuto, amato, vezzeggiato, adulato per un uomo di potere non ha mai fine. Conoscendo questo 'gioco', a cui poi si potrà aggiungere qualche pruriginosa variante, scopriamo un segnale: chi prima lo circondava festante si è stufato di ascoltare le stesse cose, le solite storielle; il suo compiaciuto auto-osannarsi con le continue smancerie hanno stancato la sua corte.
Sembra poi che nel 'gioco' dell'incontro-festino, con la trentina di ragazze che lo chiamano 'papi', si nasconda anche quello di trovare quali sono le ragazze escort inserite nel gruppo. Trovata la farà accomodare nel 'letto grande'...qui poi andrà pure bene il 'cummanari è megghiu ca futtiri', 'comandare è meglio che fottere', ma ogni tanto anche il potente ha bisogno di fottere. Ma che male c'è? Niente. Per carità. Il 75% dei consensi li ha. Il popolo lo ha incoronato. Ricco è ricco. La famiglia è cresciuta ed è bella. La politica come servizio agli altri? Lui lavora per il bene di tutti. Allora? Lasciatelo in pace. Sta svolgendo semplicemente il suo karma: la vita precedente era orfano, povero, emigrante ed era stato fottuto.

giovedì, giugno 18, 2009

terremotati e potere

Il terremoto e il G8 da svolgere in quelle stesse zone, dove ha creato morti e distruzione, si rivelano per Berlusconi un accidente. L'aspetto propagandistico e di immagine ottenuto con molte promesse gli si ritorce contro. Gli aquilani hanno protestato ieri a Roma davanti a Montecitorio e oggi la visita di Berlusconi all'Aquila li ha evitati; come ha dribblato i giornalisti.
I terremotati dell'Aquila stanno osservando come procedono spediti i lavori per la preparazione del summit del G8, mentre i lavori di ricostruzione vanno a rilento. Quello che hanno sotto gli occhi i terremotati d'Abruzzo è la metafora del potere. Per i potenti di casa nostra e della Terra non ci sono ostacoli, non ci sono freni: tutto diventa possibile, mentre per i semplici cittadini rimangono promesse e vincoli di spesa, di permessi, di ordinaria burocrazia.
Le promesse fatte in campagna elettorale ai terremotati non hanno la copertura finanziaria assicurata e così sale la protesta. Sotto i loro occhi i costosi lavori di costruzione degli spazi utili alla manifestazione del G8 invece sono pagati. Berlusconi confida in aiuti esteri, lotterie e introiti futuri...al momento soldi per garantire i terremotati non ce ne sono.

sabato, giugno 06, 2009

Il partito dell'amore di Marco Travaglio


Pubblicato oggi sul quotidiano L'Unità
Siccome l’Italia non è un regime, tre giorni fa accadono due stupri a Roma: uno consumato, l’altro sventato per miracolo. Ma la questura non dice niente: vedi mai che qualche elettore patito della «sicurezza» capisca che la destra ha tradito anche quella promessa. La notizia esce perché un giornalista, avvertito da un amico poliziotto, la mette su facebook. Allora la questura è costretta a sputare il rospo. Sempre tre giorni fa, siccome l’Italia non è un regime, arriva alla Rai, in viale Mazzini a Roma, una lettera con un proiettile per Michele Santoro. L’ufficio posta la trasmette al posto di polizia. Ma nessuno avverte il destinatario, cioè Santoro. Silenzio di tomba per due giorni, dalla Rai e dalla polizia. Così chi l’ha minacciato di morte ha la conferma di quanto già sapeva: Santoro è isolato persino nella sua azienda. Ieri la lettera viene aperta: una foto di Santoro, la scritta «Morirai» e una cartuccia Winchester inertizzata. Intanto un’altra busta con proiettile arriva a Di Pietro. Il senso è chiaro: chi si mette di traverso sulla strada del padrone d’Italia deve morire. Era già accaduto in un’altra campagna elettorale al calor bianco, quella del 2001: Indro Montanelli ricevette alcune telefonate mute sul suo telefono privato, trovò una lettera minatoria sul tavolo del ristorante dove pranzava e la Digos gli intimò di cancellare le iniziali I.M. dal citofono di casa sua. «Il berlusconismo ­ commentò il vecchio Indro ­ è la feccia che risale il pozzo. Questa è la peggior Italia che abbia mai visto. Peggio di quella fascista». E non aveva visto quella di oggi.

martedì, giugno 02, 2009

In ricordo dell'amico Mauro Bocci

Articolo di Giuliano Galletta
di Giuliano Galletta
Genova. L’amico e collega Mauro Bocci, giornalista, scrittore, critico - morto improvvisamente ieri nella sua casa di Certosa a 57 anni - aveva avuto molte grandi passioni. Il cinema, l’arte, la letteratura, la storia e anche la politica.
Quando era studente al liceo D’Oria si faceva chiamare Carlo in onore di Marx e, appena sedicenne, fece parte attiva nel movimento del ‘68. Il suo interesse per i problemi politici del mondo ebbe poi uno sviluppo professionale nel giornalismo e Bocci fu per molti anni responsabile delle pagine Esteri del Secolo XIX commentando con equilibrio e intelligenza tutti grandi eventi degli anni Ottanta/Novanta, dalla caduta del Muro alla Guerra nel Golfo. Ma sulle colonne del Secolo XIX aveva scritto anche di cultura e in particolare di arte contemporanea, tema di cui si occupava sempre in modo anticonvenzionale. Ma probabilmente le sue passioni più vere e profonde erano due, il cinema e Genova. All’inizio degli anni Settanta aveva fondato, con Enrico Ghezzi e Marco Giusti, la rivista di cinema “Il Falcone Maltese”, vera fucina della cinefilia italiana e fu uno dei primi critici a sdoganare il cinema horror. Memorabile una sua intervista a Vincent Price, vera e propria icona delle produzioni Hammer, che Bocci incontrò all’hotel Colombia davanti alla stazione Principe.
All’altro suo amore, Genova, Bocci aveva dedicato la sua unica, ma del tutto matura, prova letteraria, “Il mare in piazza. Un sogno genovese” , una raccolta di racconti in cui esibisce una scrittura raffinata, consapevole di tutte le grandi lezioni novecentesche ma autonoma. «In una di quelle immobili ore d’autunno - scriveva Bocci - che precedono pioggia e notte e portano odore di rifrenscume e presagio d’altre giornate inconcludenti, Genova è una monade bianca e grigia, un attimo lattiginoso che tergiversa e si consuma su un dosso, al santuario della Madonnetta». E ancora, citando Caproni: “Sparire/come il giorno che muore/ dietro i vetri.../il mare.../il mare/il mare in luogo della storia.”
Con Bocci se ne va uno di quegli intellettuali genovesi un po’ eccentrici che sfidano il provincialismo con la loro cultura e disprezzano il piccolo cabotaggio di tanto establishment cittadino all’affannosa rincorsa di qualche “identità”, purchessia. Nel 2000 Bocci si era dimesso dal Secolo XIX per dedicarsi alla scrittura e aveva prodotto diversi volumi di divulgazione storica per la Rusconi: “Storia dei Papi”, “Attila”, “Gengis Khan”, “Alessandro Magno” e ancora un notevole libro sulla storia della sua città “L’identità genovese” (De Ferrari).
Era da tempo gravemente malato ma stava seguendo le cure e nulla avrebbe lasciato presagire un esito così repentino. Mauro Bocci lascia la moglie Janet e il figlio Giorgio di 7 anni. Alla famiglia le condoglianze di tutto Il Secolo XIX e dei colleghi di tutto il giornalismo ligure