venerdì, ottobre 31, 2014

La strutturazione del tempo come strutturazione della comunicazione

La strutturazione del tempo è stata introdotta da Eric Berne come categoria generale entro cui ricadono tutte le possibili serie di transazioni. Si tratta di una forma di 'strutturazione della comunicazione'.
Ciao e poi? Questo è il titolo di un libro di Eric Berne (in Italia edito da Bompiani) che parla dei copioni, degli stati dell'Io e dei giochi all'interno dell'Analisi Transazionale. Dal titolo però emerge uno speciale problema umano: quello della strutturazione del tempo. Il tempo ha da sempre fatto interrogare gli uomini e ancora di più li ha posti di fronte al suo scorrere ineluttabile, senza che loro stessi non assumessero una posizione esistenziale verso questo tempo.
Per l'autore Eric Berne, dove esiste in fondo ad ogni tipo di comunicazione il modo di dare e ricevere delle carezze; queste comunicazioni sottostanno a 6 modelli:
L'isolamento
, quando ci si sottrae alla relazione sociale. Spesso diventa un caso limite che ci blocca nel perseguire ciò che realmente vogliamo. Oppure quando assorti nei nostri pensieri e dalle nostre fantasie ci estraniamo dagli altri; in un caso di riflessioni o ricarica ci sono valenze positive.
Il rituale, le relazioni schematizzate, prevedibili e stereotipate come i semplici saluti: Ciao, come stai? Bene e tu?
Questi scambi che 'accarezzano' i relatori sono molto praticati nelle cerimonie religiose o in comportamenti di costume tradizionali in molti paesi africani. Si pensi che nelle tribù dei Dogon in Mali, il rito del buongiorno può durare oltre mezz'ora. Vengono ricordati tutti i membri della famiglia ecc.
Il passatempo, sono le conversazioni più o meno strutturate, meno stereotipate dei rituali, che si focalizzano su argomenti relativamente innocui. Il gossip e il calcio la fanno da padroni. Poi ci sono la moda, il cinema, gli spettacoli etc. Anche il sesso diventa un importante passatempo. Pensandoci bene, anche estraendolo da una relazione intima d'amore, il sesso è il passatempo preferito dalla maggioranza. Peccato che sia quello che all'atto in sé forse dura meno di tutti gli altri. Per il calcio e gli sport esistono invece trasmissioni ininterrotte che alimentano la chiacchiera oltre ogni limite.
Sul passatempo bisognerebbe indagare l'avvento dei social-network: l'era del digitale ha certamente amplificato l'offerta.
L'attività lavorativa, è diretta al raggiungimento dello scopo basilare di trovare le risorse vitali: soldi, casa, cibo, beni materiali, oggetti, comodità ecc. In questo caso l'attività non si riduce al semplice parlare, e a volte può essere anche un hobby, il cui raggiungimento del risultato programmato è fonte di carezze.
Il gioco, il gioco in questo caso è quella forma di comunicazione reciprocamente distorto ed ingannevole, per avere carezze. Con queste relazioni si ha l’amara sorpresa per entrambi i giocatori di una sensazione finale di stupore e di spiacevolezza: è il nucleo della teoria-pratica dell'Analisi Transazionale. Il gioco qui inteso è costituito da un inizio e da una sequenza ripetitiva di transazioni incongruenti, tra il livello sociale (esplicito) e quello ulteriore (psicologico), da una fine e da un tornaconto che spinge i giocatori a partecipare.
L'intimità, è la relazione sana e autentica che permette lo scambio di carezze positive. Con l'intimità possiamo esprimere le nostre emozioni e i nostri pensieri in modo diretto e autentico. Nell’intimità, anche se ci sentiamo vulnerabili, ci assumiamo personalmente il rischio e la responsabilità dell’esito dello scambio; tutto l'opposto del gioco dove ogni giocatore cerca di addossare all’altro la responsabilità dell’esito nefasto.

Spero che questa breve disamina sulla strutturazione del tempo sia stata utile. Un piccolo contributo alla presa di consapevolezza del nostro agire, al sapere di noi e delle nostre dinamiche sociali.

lunedì, ottobre 27, 2014

A proposito di carezze

A proposito di carezze, menzionate nel post precedente, bisogna sapere che la natura e la gestione di queste ultime sono state analizzate dallo psicologo statunitense Eric Berne con il libro: A che gioco giochiamo, edito da Bompiani.
Egli descrivendo i giochi, ovvero quelle relazioni costruite artatamente per procurarci degli stimoli, conferme d'esistenza, ha parlato in sostanza delle carezze- manifestazioni che confermano che noi esistiamo, siamo qui e vivi.
Nel libro di Eric Berne, che illustra la teoria-pratica dell'Analisi Transazionale, il termine carezza è inteso come una unità di stimolo per la relazione. Le carezze possono essere di diverso tipo, grado e modalità; possono essere fisiche, verbali, mimiche, mediali, condizionate o incondizionate, distruttive o costruttive, positive o negative. La fame di carezze o di stimoli -che ha ognuno di noi e potremo aggiungere ogni essere vivente-, è fame di riconoscimento ed è importante come il cibo e l'aria. Questa fame è così sentita che si preferisce una carezza negativa (es. un rimprovero o uno schiaffo) piuttosto che l'indifferenza. Senza carezze non si vive.
E' stato riconosciuto da studiosi della materia che i neonati hanno bisogno delle carezze fisiche: hanno bisogno per crescere bene e sani di essere manipolati, toccati, massaggiati. Crescendo poi le carezze fisiche si trasformano in verbali, e qui le lodi, i complimenti, gli incoraggiamenti sono importantissimi nello sviluppare personalità positive.
Le carezze sono così importanti che in mancanza di carezze buone si preferiscono le sberle. La fame di carezze è diversa in ognuno di noi, c'è a chi non bastano mai e chi riesce a vivere anche con una sola carezza al giorno. Un esempio di un bisogno elevato di carezze è dato dai divi dello spettacolo o dai personaggi pubblici, per cui le carezze ricevute con il successo o la riconoscibilità, pare non bastino mai; cadere nella dimenticanza, li fa sprofondare in gravi crisi depressive. Per contro ci sono persone, soprattutto anziane, che a volte la carezza si riduce ad un semplice 'buongiorno', ricevuto per strada per farle sentire vive e riconosciute -loro che spesso diventano cittadini invisibili.

Secondo Claude Steiner (un allievo di Eric Berne), in occidente i bambini vengono allevati attraverso una gestione delle carezze basata su 5 punti: 1) Non chiedere carezze 2) Non dare carezze 3) Non accettare carezze 4) Non rifiutare carezze negative 5) Non accarezzare te stesso.
Chi viene allevato rispettando queste regole, vive cercando beni materiali, si accontenta di essere frustrato, insultato e infine cerca sostitutivi alle carezze tipo il bere e la droga. Rifiutare invece queste regole dell'educazione occidentale, significa conquistare l'autonomia e l'intimità rifiutando carezze negative.
Va da sé poi aggiungere che il sistema per avere le carezze più appaganti, quelle che ti portano in paradiso e ti fanno felice, sono quelle dell'amore. Quelle date nello scambio intimo tra chi si ama: lì ci sono le carezze più vere. Allora 'Buone carezze a tutti'.

mercoledì, ottobre 22, 2014

L'arte del sapere di noi: arte del vivere, arte del benessere.

Il più grande psicoanalista junghiano vivente, James Hillman, lo aveva detto: la psicoanalisi più che una scienza, una terapia o altro, è un'arte.
Anche il compianto Aldo Carotenuto -psicoanalista, scrittore e docente di Psicologia alla Sapienza di Roma-, aveva affermato nei suoi libri che l'aspetto terapeutico di una psicoanalisi era dovuta allo scambio empatico tra analizzato e analizzante...l'analizzante per primo doveva riconoscere in sé la ferita che produceva il malessere dell'analizzato, solo a quel punto la cura avveniva insieme: l'analizzante si curava con l'analizzato. Infatti si è sempre sostenuto che chi si avvicina alle tematiche psicologiche e trova curiosità nel campo dell'analisi è perchè ha una qualche ferita dentro di sé; ha un malessere esistenziale che lo spinge a conoscerne le cause. Diversamente non ci sarebbe empatia.
Ad ogni modo una psicoanalisi riuscita porta all'accettare parte di noi negate o meglio non volute e che fanno parte della nostra essenza. Questa accettazione, questo imparare a vivere con le nostre ombre (ombre, così chiamava Jung le parti oscure e rifiutate da noi) è un presupposto alla nostra salute mentale e all'arte di stare bene con se stessi.
Per raggiungere l'obiettivo di stare bene e sapere di noi, non si deve necessariamente passare attraverso il percorso della psicoanalisi, o meglio, non esistono percorsi schematici, istituzionali ecc. ma proprio per la caratteristica creatrice, dunque artistica del cammino che compiamo con la nostra vita, ognuno troverà da sé -se lo vuole- una propria via. Troverà la maniera di conoscere i propri limiti e i propri talenti. Esisteranno delle interazioni, degli scambi emozionali forse anche dolorosi, ma tuttavia il raggiungimento e la conoscenza si potrà sentire soltanto da soli. Dipende da noi e dall'esercizio dei nostri talenti, che tutti abbiamo, impostare la vita.
Oggi viviamo nella cultura della terapia: tutto pare bisognoso di cure. Il male che avvertiamo naturalmente è poi frutto di qualcosa successo ieri, nel nostro passato e con ciò dobbiamo andare a fare i conti con quello per guardare al futuro: ecco che così il passato diventa anche il nostro futuro. Il nostro destino appare segnato da ciò che è successo nel passato. Sbagliato. Il destino lo creiamo noi giorno per giorno attraverso le nostre scelte. Queste scelte sono decisioni e le decisioni sono in nostro potere. Bisogna anche sapere che a guidare le nostre decisioni sono i nostri bisogni e desideri...li conosciamo? Conoscendoli conosciamo insieme noi stessi.
I bisogni creano la nostra mappa: quel sistema di credenze che disegna come riuscire a soddisfarli. Bisogna allora sapere che i bisogni primari sono l'amore e l'essere riconosciuti con la relazione: sono quelli delle coccole, delle carezze (che per Freud erano quegli 'utili di malattia' che ricercano i malati- sempre per restare nel campo delle culture terapiche); sono quelli della sicurezza, della fiducia; sono quelli dell'autonomia, dell'appagamento, del bastare a noi stessi...in ultimo del crescere; da quest'ultimo allora si arriva al bisogno di fare qualcosa per gli altri. Di passare da l'io al noi...
Tutti gli altri bisogni seguono. Seguono con gli aspetti identificativi del nostro essere.
Impastando tutto nasce l'arte del vivere: l'arte del sentirsi bene; l'arte del cambiamento.

martedì, ottobre 14, 2014

Goethe muore di Thomas Bernhard

Ho appena terminato di leggere il libro di Thomas Bernhard, Goethe muore. Il libro è formato da 4 racconti, in cui l'autore mette in mostra il suo stile letterario che per me è formato da un'ossessiva ripetizione di frasi a supporto di descrizioni di situazioni claustrofobiche. Che sia il Genio di Germania o il quarantaduenne amante di Montaigne, succube dei genitori; che sia la nevrosi per la montagna, trasmessa ancora da genitori o l'odio per nazioni, culture e città, la struttura letteraria non cambia.
A me non è piaciuto. Non è piaciuta neppure la formattazione del testo che senza interruzioni 'daccapo', fanno della pagina compatta un ulteriore segnale di soffocamento, di mancanza di respiro. Sicuramente Thomas Bernhard ha molti estimatori e l'editrice Adelphi -che considero la migliore in Italia – se lo pubblica è perché ha trovato delle qualità; ma a me non è piaciuto.
L'editore nella 'quarta di copertina' scrive: 'In questo piccolo gioiello c'è in nuce tutto Bernhard: qui si ride, ci si commuove e si pensa. Il racconto che dà l'irriverente titolo al volume vede il Titano, ormai allo scorcio della vita, in fase di bilanci'...
Il risultato che l'autore si era sempre prefisso era esaltare una comicità delle situazioni, io non l'ho trovata. Anche se l'ironia accompagna sempre le riflessioni dei protagonisti degli scritti, non ho trovato quello spunto che porta la lettura ad un piano superiore; a quello dove la componente filosofica e metaforica acquistano un nuovo senso delle cose. No. Tutto sembra avvitarsi, come la ripetizione delle frasi, in un circuito discendente.
Ad ogni modo l'autore è considerato uno dei massimi scrittori del '900.
Andate a fuoco è l'ultimo dei quattro racconti e qui penso che si raggiunga il massimo, l'apice dello stile di Thomas Bernhard. La relazione di viaggio a un ex amico -come recita il sottotitolo del racconto, è un inno, una filastrocca che inforca una collana di parole quali: bruttezza, volgarità, disgusto...con un 'esiziale' intermezzo. Qui si sente gioca molto l'autobiografia dell'autore; si racconta attraverso un sogno dove non risparmia nessuno -soprattutto l'Austria (la sua patria traditrice)- di quello che sente responsabile della sua depressione.
Con una breve indagine ho scoperto che il filosofo Aldo Giorgio Argani -il massimo studioso italiano di Ludwig Wittgenstein - è stato colui che ha fatto conoscere Thomas Bernhard in Italia. Questo filosofo ha scritto anche un saggio su Thomas Bernhard: La frase infinita. Thomas Bernhard e la cultura austriaca, ed. Laterza, Bari 1990. Nella scheda di questo libro -a cura di Paternò per l'Indice- si legge:
'L'Austria, pur rinnegata e maledetta, resta per Thomas Bernhard "Heimat", patria culturale. Così le due parti in cui si articola l'ultimo libro di Aldo Gargani - la prima dedicata all'analisi della scrittura di Bernhard, la seconda ai linguaggi della cultura austriaca - si compenetrano nell'intrecciarsi di estetica ed etica, di poesia e filosofia. In Bernhard l'incessante tramutarsi del senso in nonsenso e della verità in menzogna rende imprescindibile la scrittura, una "Gedankenpoesie" che, se condotta con rigore, è unica condizione di salvezza Negli altri - Wittgenstein, Musil, i padri della musica atonale, Ingeborg Bachmann - l'istanza etica impone di spezzare la coazione a ripetere per scegliere ogni volta di nuovo tra infinite possibilità. Condivisa è la ricerca di un "Mittelpunkt", abitazione in cui l'uomo possa sopravvivere alla pressione dei fatti entro il linguaggio. Bernhard, però, con il suo lavoro di decostruzione che dissolve, attraverso l'inversione di ogni concetto nel suo contrario, la verità unica, giunge a esiti paradossali: i suoi personaggi restano prigionieri dello spazio che dovevano abitare. Il pensiero, nel suo movimento autodistruttivo, si arresta un attimo prima della follia e del suicidio. A questo baratro arrivano tutti i personaggi, e tutti finiscono per soccombere. Lo scrittore invece si salva. Dalla sua opera ha bandito ogni descrizione, ha fatto della scrittura una tessitura di citazioni e frasi, ha preso le distanze dall'io narrante, per arrivare all'estremo della disperazione senza tuttavia perdersi. Ma davvero può restare incolume?'.
Irreprensibile. Concordo ed è per questo che il mio moto è quello di saltar pagine per trovare una fine -non certo un fine- nel nulla.

domenica, ottobre 12, 2014

Le responsabilità nostre e dei politici

Concordo con quanto scritto oggi su Il SecoloXIX da Maurizio Maggiani, nella sua rubrica 'La Domenica'. In sostanza l'articolo dice che la colpa di quanto è successo in merito o demerito dell'ennesima alluvione che ha colpito Genova, il 9 ottobre è sua – per dire nostra; di ognuno di noi.
Non dobbiamo prendercela con gli altri per quanto ci succede, ma dobbiamo imparare a non delegare e prenderci la responsabilità per quanto accade. Dobbiamo saper prenderci cura di quanto ci sta intorno; di quanto facciamo per il vicino e fuori dall'uscio di casa.
Giusto. Questo è il succo del ragionare di Maggiani. Detto ciò c'è da fare una considerazione sulla responsabilità dei politci.
Da moltissimi anni, per non dire decenni, c'è stato un impoverimento dello spessore morale e intellettuale dei nostri politici. Vediamo quanti personaggi di pessimo gusto affollano la politica -ad iniziare da quello una volta definito Jena Ridens, con la sua discesa in campo la politica è anch'essa discesa in un'agone di scontri a misurare forze più che idee e capacità di risoluzione dei problemi di convivenza.
Ecco allora arrivare una valanga di 'gladiatori', di combattenti per le varie libertà che nulla hanno fatto per prevedere ciò che stiamo vivendo oggi nel reale.
Ecco allora che con questa ennesima tragedia ambientale mi auguro si riesca a frenare questa pletora di nuovi politici -compreso Beppe Grillo- mettendoli di fronte alle loro responsabilità: chi decide di fare politica sappia che tutto quello che succede e succederà lo dovrà pagare in termini morali, etici e fisici.
Questa responsabilità penso dovrà aiutare a selezionarli alla radice: tu politico (cui nessuno ti ha forzato di metterti al nostro servizio) in caso di danni causati dall'incuria ambientale, politica ed economica dovrai pagare di persona.
Questo penso sfoltirebbe notevolmente la banda dei 'ghe pensi mi', dei 'bla...bla...bla'. Con ciò nulla toglie l'ulteriore nostra responsabilità; quella che in democrazia ce li fa scegliere.

domenica, ottobre 05, 2014

Le capitali del mondo: da Atene a Shanghai. Una riflessione sulla civiltà d'Occidente.

Ogni epoca storica ha avuto una città capitale, una città che rappresentava, diventandone sintesi, quella fase storica socio-politica ed economica. Così abbiamo avuto per il mondo occidentale diverse città simbolo dell'epopea umana e politica. Da Atene, Roma, Parigi, Vienna, Londra, Berlino, fino a New York e Los Angeles c'è stato un continuo spostarsi verso Ovest...oggi la città più rappresentativa e capitale del mondo è Shanghai: un ovest che stavolta è Est. Già, la capitale del mondo rappresentativa del potere politico-economico, con tutto ciò che ne consegue, è oggi Shanghai. In un certo senso la nuova capitale del mondo è una contraddizione: è la sintesi di quanto è stato fatto in occidente, assumendone le forme fisiche dei grattacieli e del vivere frenetico, pur rimanendo una città dell'Estremo Oriente.

Ma cosa significa Shanghai nel mondo e per la nostra cultura? E' strano appunto che Shanghai risulti una capitale del mondo e quindi insieme anche dell'Occidente. Non lo è stata Mosca, non lo è stata Tokyo, non lo è stata Pechino...come HongKong. Allora?
Oggi abbiamo molte maniere per approfondire la realtà e fare conoscenze; oggi ci sono i global Media e anche la Rete permette di fare viaggi, seppure virtuali, nei luoghi più diversi. Con l'ausilio della letteratura è poi più semplice formarsi opinioni. Intanto Shanghai risulta la città più popolosa del mondo: con i suoi oltre 24 milioni di abitanti supera in ordine Karachi, Pechino e Tokyo.
Questa città situata alla foce del fiume Yangtze è equidistante da Pechino e Hong Kong. Famosi sono alcuni suoi soprannomi tra i quali: La Parigi d'oriente, La regina d'oriente, La Perla d'oriente... con l'insediamento di molte comunità straniere, a partire dagli inglesi per proseguire con francesi e statunitensi, per passare dai giapponesi agli ebrei russi ed europei, si è arrivati a dare alla città anche il soprannome di Grande Atene della Cina. Era il 1930 e il fatto potrebbe definirsi un anticipo per cui Shanghai era destinata a chiudere un ciclo della storia della civiltà occidentale. Una nuova Atene?

Il melting-pot per cui era ed è famosa NewYork, ora lo si può ritrovare a Shanghai. Anche se il tasso di stranieri in fondo è minimo. Oltretutto essere stranieri non passa inosservato e oltre che guardarti i cinesi del luogo ti ridono in faccia, ma questo non è offensivo. Uno straniero resta un laowai (un termine in mandarino, informale o slang, che sta per straniero-alieno). Con ciò rimarcano una differenza fisica e in un certo senso anche comportamentale. A Shanghai si vive 24 ore al giorno e tutto cambia vorticosamente; il conoscere e parlare altre lingue è una costante giornaliera. Ogni cosa che nasce a Shanghai è considerata moderna. Secondo alcune indagini autorevoli le mode che poi invaderanno l'Asia e il mondo nascono qui. D'altronde siamo entrati decisamente nel secolo cinese.
La commistione con i modi di vivere occidentali assume forme stereotipate: Mac Donald e Starbuck sono marchi comuni.

Per la letteratura occidentale va ricordato il libro dello scrittore francese André Malraux: La condizione umana, che ha come sfondo la città di Shanghai. Pubblicato nel 1933, protagonista principale di quel romanzo è la morte. Le problematiche esistenziali dei rivoluzionari, organizzatori della rivolta della città di Shanghai, fanno emergere in quella fase storica tutte le filosofie di vita che ognuno ha. Le azioni commesse moltiplicheranno le angosce e le certezze. Amore e incomunicabilità discrimineranno conoscenza e solitudine; vita e morte. La Rivoluzione non vincerà e quello che rimane sarà la consapevolezza che la sofferenza è data da altri uomini; da una borghesia che divide e crea continue 'chiese'.
Ecco che Shanghai usata in quel romanzo come sfondo di una tragedia umana, consumata nel sogno del riscatto, oggi offre al mondo un qualcosa di indefinibile.

Se ci affidiamo alla letteratura possiamo condividere per Shanghai ciò che ha scritto Paolo Rumiz per Pechino nel libro Maledetta Cina (Feltrinelli 2012):
'Dietro questa apparente somiglianza occidentalizzata pullula una mentalità che non ha niente da fare con la nostra. La vetrina è ingannatrice: i loro valori, le loro paure, il loro modo di amare e divertirsi non hanno niente a che fare col nostro mondo e temo che non riuscirò a comprendere quella dimensione...
Ho visto un paese omologato, ma omologazione non significa necessariamente comunismo. I cinesi hanno imparato da millenni a copiare e a non esprimere idee personali'.
Così, questa nuova capitale del mondo, scimmiotta una cultura occidentale che forse ha toccato un apice e non potrà che morire. Troppo? Può essere che una globalità dai destini misteriosi riesca a formare una civiltà nuova.