giovedì, maggio 27, 2004

A futura memoria

La voglia di cemento dei "comandanti" è sempre tanta. Non è quindi un caso che il "nostro" - per me più "loro"- oltre che un mausoleo dove depositare quando diverranno immobili, dato il fatal sospiro, le sue spoglie e qualche villa, ora pensi ad un anfiteatro finto greco più un approdo incavato nella roccia in uno dei posti più esclusivi della Sardegna cui nessuno è permesso costruire.
Penso che quella colata di cemento diverrà il monumento al conflitto di interessi per molti ritenuto solo virtuale. Ecco che con quel cemento il conflitto diverrà tangibile, concreto e soprattutto una testimonianza a futura memoria: poiché nessuno "sa quando una simile orma di pie' mortale la sua cruenta polvere a calpestar verrà".
Coraggio, la Terra ne vede sempre di queste storie; ne vede di scempiaggini.
Fra qualche secolo una torma di turisti scenderà ripide scale per mirar le attuali costruzioni divenute antiche rovine…una provvida guida lo dirà: "Queste erano rovine anche allora, nell'era di un certo…Perlustroni?".

mercoledì, maggio 26, 2004

Ma chi scrive la storia?


Ma chi scrive la storia? Non mi direte che oggi la scrive questo governo; che la scrivono i ministri e i loro sottosegretari…la storia la scrivono involontariamente gli uomini immobili nei letti di tortura: la scrivono i malati della vita, la scrive chi rivolge il suo pensiero oltre il tempo dell’attualità.
Perché ci ostiniamo a chiamare storia le volontà di un potere politico, che seppur eletto non incide per nulla nella nostra letteratura? Già, la storia la fanno i poeti e la loro realtà; per il resto gli altri si ostinano a ripetere lo stesso racconto, un già visto che ognuno sà.
E’ forse storia il racconto di una guerra? Il conteggio dei morti tra le parti? Oggi uccisi 3 soldati americani e 37 civili iracheni…cronaca del furore e della malvagità; riassunto dello spreco e dell’indecenza, del gettare via quello che poteva essere storia ed invece è inutilità.
La nostra storia è intima e ben diversa: è la conquista di un sapere nostro con sacrifici e amore. La nostra storia la scriviamo noi, la scriviamo parlandoci da uguali; la scriviamo anche inventandoci altre storie ma conoscendoci per ciò che realmente siamo.

venerdì, maggio 21, 2004

La storia? Un tutto.
Leggo ad un certo punto nel libro, Verso Santiago di Cees Nooteboom, questa frase: ”Se i musulmani non avessero conquistato la Spagna nel secolo VIII, gli spagnoli non avrebbero conquistato l’America nel XVI secolo. Paradosso? No, realtà”. Sarebbe un paradosso se fosse accaduto l’opposto; ma la storia è solo quello che è accaduto. Tutto quello che è accaduto.
Dopo la cacciata degli arabi dalla Spagna, l’Europa e così poi l’America ha prosperato nel cristianesimo; con questa religione, che indica anche una via di liberazione, l’uomo ha costruito la civiltà più potente. Oggi ci troviamo sempre con gli stessi valori, ma questi si sono svuotati e reggono solo all’apparire: un bel vestito di rappresentanza per santificare la festa. Ora se i musulmani non ci interrogassero sul nostro ruolo e non mettessero a nudo il degrado del paesaggio della nostra anima ecco che non si compirebbe un’altra palingenesi: quella di ritrovare se stessi perché ci sono gli altri.
Come si può pensare di far da soli? E’ dagli arabi che abbiamo imparato l’astronomia e la matematica per ricercare quell’unità divina e della natura che poi insieme forma l’universo. Noi non siamo solo cristiani o musulmani, arabi o americani, europei od asiatici, noi siamo un mondo. Siamo unità.
E se io devo scegliere una parte, non chiedo a chi l’ha di rinnegare la fede ma, lasciatemi una ragione piccola che può diventare nostra, di tutti.


lunedì, maggio 17, 2004

Cosa dicono gli iracheni?

“Restiamo in Iraq, ce lo chiedono gli iracheni”. Così qualche giorno fa dichiarava Frattini, il ministro degli Esteri. L’altro ieri lo stesso ministro riprendendo le affermazioni di C. Powell, diceva: “Resteremo in Iraq solo se gli iracheni ce lo chiedono”. Ma come non aveva detto che ce l’avevano già chiesto? Dopo Bush annuncia che l’esercito USA rimarrà in Iraq anche dopo il 30 giugno data di insediamento del nuovo governo iracheno: “Gli iracheni ce lo chiederanno, dobbiamo garantire la sicurezza del popolo iracheno”. Quindi si sa già che ce lo chiederanno. Questa volta il “nostro” Frattini sta zitto. Meno male.
Queste dichiarazioni fanno capire un paradosso della comunicazione: gli iracheni possono dire tutto e il suo contrario. Si potrebbe rispondere: “Andiamo via dall’Iraq ce lo dicono gli iracheni”, la dichiarazione può essere vera. Anzi ce ne potrebbe essere anche un’altra e anch’essa vera: “Perché siete venuti in Iraq?”; così ci interrogano gli iracheni.
Già gli iracheni sono tanti e ognuno ha delle sue opinioni che possono essere riportate a proprio interesse; ma quale è la verità? Qualcuno ha fatto un referendum? No, ognuno si è fatto la sua opinione e la supporta con quello che “dicono” gli iracheni…oggi noi leggiamo invece che sparano. Sparano sul serio e c’è un primo morto in combattimento. Cosa dicono gli iracheni? Come i nostri leghisti: “Padroni a casa nostra”. E andatevene.

giovedì, maggio 13, 2004

Noi e la tortura

C’è un filrouge che accompagna tutti i sistemi di tortura perpetuati dagli uomini in guerra e no, è nel ritenere “l’altro”, l’occasionale nemico, sempre di una razza inferiore. C’è anche la componente di farsi trascinare da un inconscio collettivo arcaico, quando l’uomo terrorizzato cercava a sua volta di terrorizzare gli esseri viventi che lo circondavano, ma quello che spinge un uomo qualsiasi a dare sfogo alle parti più bestiali è il carattere culturale di ritenere l’altro uomo un diverso: una persona indegna, un nemico su cui esercitare il potere di una propria intelligenza (e crudeltà) superiore.
Se si insegnasse e si applicasse quello che caratterizza la nostra civiltà, ovvero i valori cristiani e di umanità laica che ritiene ogni uomo una via alla bellezza, all’arte e alla trascendenza divina, forse si farebbe un piccolo passo verso l’evoluzione dell’umanità. Di tutta l’umanità.
Così assistiamo nelle nostre città, in buona parte poi tra quelli che vanno in chiesa tutte la domeniche, ad uno strisciante razzismo: l’esercizio religioso cattolico diviene uno strumento di identità, di riconoscimento della propria comunità, che lo è per usare il termine “extracomunitario”. Ma extracomunitario di che cosa? Non certo della comunità umana; di quella cristiana?
Così si perpetua la Passione di Cristo, con quello che abbiamo fatto “nostro” ed ora paradossalmente rigettiamo su un uomo torturato cui, diciamo noi, è a somiglianza di Dio…ma è soprattutto un nemico, quello a cui dobbiamo insegnare la verità, la giustizia e la democrazia. Quante torture dobbiamo ancora aspettarci? Non è forse insita nel religioso Bush la stessa cultura?

martedì, maggio 11, 2004



Nessuno si sa poeta; eppure quel che si dice talento, è in forza ad ognuno. Così la penso per cultura umanistica, ma poi a scrutare le facce, i movimenti e certe idee, trasalgo e vince lo sconforto. E’ giusto allora che la pena di morte continui; continui a portarci via, a ripulire la piazza: non certo la pena di morte inferta dai tribunali, ma quella di una provvida natura. E' giusto che si rinnovino sentimenti, si perpetuino rabbia e dolore, si riascoltino risate e gioia. Ma perché tanta ricchezza viene sperperata? Perché un'unità di scambio, fa scegliere un lingotto d'oro ad un bacio?
Dato che il pensiero e l’immaginazione sono funzioni accessibili a tutti è chiaro che la funzione poetica o creatrice è nella possibilità e disponibilità di chiunque. Così continuo a pensare che la poesia, come l’amore, capiti a tutti come un accidente; un meraviglioso accidente che ci apre alla conoscenza, alla realtà e agli altri poiché con quello che ci capita comprendiamo che non siamo soli e condividiamo tutto.
Per questo ho fatto un piccolo libro: “La poesia come un accidente…”. Non credo che lo troverete nelle librerie, la casa editrice è piccola e le copie sono poche ma se lo richiedete a me ve lo farò avere.

domenica, maggio 09, 2004

Torture e guerra

La tortura si innesta naturalmente in quel contesto irragionevole, inumano che si chiama guerra. Ci spiegano, di solito i potenti che la proclamano, che la guerra si farà con codici cavallereschi, che si faranno morti mirate con bombe intelligenti e convenzionali (chissà che differenza fa per chi muore), che saranno rispettati i prigionieri e chi vince alla fine detterà le condizioni…ogni volta poi assistiamo, poveri tapini in balia alla "pazzia dei Cesari" e all'inconscio collettivo, al copione della guerra con le sue brutture quasi pensandola ogni volta diversa.
Ma la guerra è questo: è terrore, morte, miseria, umiliazione, odio e anche tortura. C'è da meravigliarci? Lo stesso odio che si ha in fondo per l'altro è quello che si nutre per se stessi, per quel sogno d'onnipotenza che si infrange contro le nostre miserie. Solo la compassione ci può salvare.
Ora si dice: "Colpiremo i responsabili"…e chi è il responsabile se non Bush? Il liberatore? Il maestro di democrazia, che non ha vinto neppure le elezioni?

venerdì, maggio 07, 2004

L'Arte di amare


Quest’anno è uscito in ristampa “L’arte di amare”, un bellissimo libro di Erich Fromm, che spiega come la facoltà d’amare non è acquisita naturalmente dalle persone, non è una funzione innata, ma debba essere imparata; vada compresa nel suo profondo significato di comunicazione intima e sincera che unendo due individui li faccia crescere insieme ad un livello superiore.
Fromm sostiene, con questo libro, come l’attuale società fornisca palliativi e surrogati al sentimento d’amore che si sposta nel consumare. Oggi essere felici vuol dire divertirsi e divertirsi significa consumare; consumare è scambiare, barattare, comprare e vendere tutto quello che si pensa utile ai nostri bisogni. In questo modo l’amore come soddisfazione reciproca, l’amore come cooperazione, come rifugio alla solitudine, diventa la forma della disintegrazione dell’amore nella società occidentale moderna, la patologia socialmente schematizzata dell’amore.
Fromm avverte che l’amore è possibile solo se due persone comunicano con il loro essere profondo, sentendo loro stessi, nell’esperienza di rapporto, la vitalità e la forza dell’amore: l’amore sentito così è una sfida continua che spinge a sviluppare la propria personalità; paradossalmente l’amore ci libera, non è possesso o costrizione ma la costruzione di una unità che consente di restare due.
Il libro scritto da E. Fromm nel 1956, divenuto subito un grande successo, a distanza di moltissimi anni è ancora attuale e continua a trasmetterci la sua originale visione: ad amare si impara. Amare, per Fromm, è “prendere parte” e non “lasciarsi prendere”; è un esercizio di pazienza come il continuare a rialzarsi di un bambino che sta imparando a camminare.
“L’arte di amare” non è un prontuario che illustra stratagemmi sentimentali ed erotici ma un invito a cogliere gli ostacoli che impediscono lo sviluppo del sentimento amoroso in amore vero; un aiuto quindi a lavorare su se stessi per scoprire quel talento con l’applicazione ad essere spontanei, ad essere come artisti.
Così per amare, bisogna imparare prima a pazientare, a sapere stare da soli, ad accettare l’altro e rispettarlo; importante poi è avere fiducia in se stessi perché in fondo è nel rapporto con il proprio sé che si sviluppa il rapporto con il prossimo.
Allora un buon auspicio di lettura utile a tutti per dare forza a quella verità che sostiene che diventando saggi e cambiando noi stessi, cambiamo e facciamo saggio il mondo.


martedì, maggio 04, 2004

Noi sappiamo di noi

Non sappiamo di noi. Spesso ci facciamo domande, ci interroghiamo su chi siamo inseguendo comportamenti e risposte stereotipate, ma ogni giorno, meglio ogni notte, la nostra natura intima si rivela e noi abbiamo la possibilità di risposte vere con i sogni. Il sogno è la strada, la via principale per questa conoscenza. Le informazioni su di noi sono dentro di noi e i sogni ci consentono di accedere a questa realtà soggettiva. In noi non abbiamo solo le informazioni su di chi siamo veramente, ma anche ci l’indicazione per trovare il senso della nostra vita e realizzare il nostro destino.
I sogni ci rivelano con una puntualità impressionante il nostro stato psichico. Certamente la lettura dei sogni non è mai banale, non è interpretabile tout-court, ma è da mettere in rapporto dialettico con il nostro vissuto reale e la nostra parte oscura. Proprio quest'ultima parte, ovvero l'inconscio, viene espressa dal sogno attraverso metafore, simboli, immagini molto simile al linguaggio artistico.
Quindi annotatevi i sogni e interrogateli. Non abbiate paura poi di non riuscire a trovare subito la risposta; certo che la natura sarebbe stata crudele se ci avesse dato i sogni e non la possibilità di interpretarli, allora pensateli e vedrete che arriverà la risposta.
Bisogna ricordare che nell’epopea di Gilgamesh, la storia più antica risalente a 5000 anni fa, viene ricordato un sogno: una stella caduta addosso a Gilgamesh, il regnante, lo mette in difficoltà e così chiede aiuto al suo popolo; egli allora scopre il passaggio del sentire collettivo a quello individuale. Non è un caso che i divi si appellino star- stella; questi individui che agiscono modelli collettivi non sono molto individuati. La stella rappresenta l'unicità della persona; ogni anima ha una stella in cielo. La stella è il nucleo originale e originario del nostro essere. Ogni sogno contiene un insegnamento, un richiamo; la stella della nostra unicità vive, viveva e vivrà. La stella indica una strada nuova che nessuno ha mai seguito: la strada giusta per te.
Il sogno di Gilgamesh è anche un momento importante del passaggio dal sentire collettivo a quello individuale. La vita ci chiama a vivere il destino di individui unici; invece spesso si ci nasconde in ruoli collettivi e dietro ambizioni. Dire ad esempio: io sono il mio talento, la mia intelligenza, vuol dire essere soggetti alle proiezioni e la devozione altrui, gonfia fino a scoppiare…così nasce la "pazzia dei Cesari". Qui entra in gioco la misura che è per ognuno diversa e non misurabile. Se ci si chiede quanto si vale, difficilmente si trova una risposta. Dipende dai momenti e per ognuno oscilla. Certo che certuni circondati da mediocri si sentano "grandi".
I sogni ecco che come polvere di stelle giungono a noi per rivelarci l’essenza di cosa siamo e di quanto poi sappiamo.



lunedì, maggio 03, 2004

Una vita non basta


Una vita non basta per fare i conti con tutto quello che abbiamo lasciato in sospeso, per questo credo in altre vite; credo in un karma, credo che rinasciamo e che non moriamo.
Una vita non basta a farci comprendere quello che ci circonda; la materia che vediamo e tocchiamo arriva da lontano e da azioni cui noi non abbiamo consapevolezza.
Una vita non basta a farci dimenticare la scimmia, a fare uno scalino in su, a continuare la storia. Se poi vediamo ancora guerre e con queste moriamo della violenza assurda data dalle nostre mani, una vita non basta davvero.
Una vita non basta per diventare cinese e poi indiano, diventare giapponese e americano; dobbiamo riprovare e riprovare, sbagliare e ritentare per essere quello che già siamo.
Ma allora una vita non basta? Non basta per conoscerci e sapere di noi?
Credo di no; penso che ci ritroveremo e chissà allora se ci riconosceremo, perché una vita non basta.