mercoledì, aprile 28, 2004

Genova del saper fare

Ieri sono entrato in quella strana mostra chiamata “Genova del saper fare” e Genova mi si è mostrata nella sua veste migliore. Daniele Miggino aveva già descritto bene, su mentelocale.it, il carattere “ascendente” della disposizione delle sale che illustrano Genova come primaria risorsa industriale; io vorrei invece calarmi nel meandro emozionale che questa mostra evoca.
Guardando quei filmati, ascoltando i suoni, che avvolgono chi visita la mostra, sono stato assalito dalla commozione: io quel mondo l’ho conosciuto, io con quegli uomini ho vissuto; io con quel “saper fare”, fatto di sacrifici, di solidarietà, di conoscenza e amore del proprio lavoro, ci sono cresciuto. Ora quelle immagini sembrano distanti, ma sono passate solo due generazioni e basta chiedere ad un nonno d’oggi per farle affiorare nella mente.
Insieme a quelle navi, treni e aerei, con quelle fabbriche simili a fucine dell’Olimpo o gironi danteschi, si costruiva una coscienza sociale e civile; si costruiva la storia e il lavoro diventava valore, lo strumento per riscattarsi, migliorare la propria vita insieme a quella degli altri. Non è un caso che Genova sia diventata per questo anche un riferimento politico importante, dove la politica assume nel concreto il valore di saper essere l’arte della convivenza civile.
Il “saper fare” di allora era un “saper conoscere” la natura intima della materia che si trasformava ed era anche un “imparare a vivere”: trovando nei lavori umili e faticosi la dignità dell’esistenza protesa a migliorare una condizione di miseria diffusa.
La prima sala che incontro è quella del porto, del suo lavoro e delle sue navi: qui ho rivisto il varo del transatlantico Michelangelo; rivisto poiché io nel 1965 vi avevo assistito nei cantieri di Sestri P. Ho rivissuto, con il filmato in bianco e nero che pare ancora più distante, l’emozione di quell’evento e, nel breve calcolo di 39 anni fa, mi dico che con quella turbonave si chiudeva un’era, finiva un mondo non certo il saper fare.
La sala 3, Ferro e Acciaio, è quella che più di tutte mi ha coinvolto; posizionandomi nell’apposito riquadro sul pavimento, insieme ai suoni della fabbrica si sente vibrare, tremare la terra, si ha l’impressione di partecipare allo sforzo per trasformare con il fuoco il minerale in acciaio, in lamiere, travi, barre che diverranno poi auto, treni, aerei, robot in altre parti del mondo ma soprattutto ancora qui nel “saper fare” di Genova. Infatti erano sempre a Genova le industrie di aerei, di treni, di navi…
Poi macchine, nomi illustri, fabbriche prestigiose; poi ancora intelligenze, successi, risultati per arrivare ad una sala dove la pianta di Genova si estende sotto grandi immagini di luoghi della città trasformati, ridisegnati e fatti rivivere come un puzzle della memoria. Ecco un nuovo senso di città dove il cambiamento è imposto dal lavoro, dal consumo, dai bisogni e forse anche dai sogni di un futuro mai raggiunto.
Con questa ricchezza del “saper fare” che si sta trasformando, cambiando, Genova oggi tenta altre strade, cerca il turismo, ricerca una nuova identità culturale; ma la Genova finora conosciuta è ancora in queste sale. Genova con i suoi uomini è ancora pronta alle sfide presenti.

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