lunedì, marzo 06, 2006

La Signora dell'Acero Rosso

C’è un piccolo libro, che ha aperto nell’anno 2000 le pubblicazioni della neonata Fratelli Frilli Editori, che si può considerare un gioiello: La Signora dell’Acero Rosso. Con la copertina che richiama sfacciatamente le edizioni Adelphi, cui vuole essere un omaggio, il libro di Dario G. Martini, La Signora dell’Acero Rosso è un ‘a solo’ per voce femminile recitante, che riesce a spiazzare, per l’argomento e per le implicazioni morali e filosofiche che tocca.
Il monologo della Signora dell’Acero Rosso tocca le parti più profonde di noi; tocca quell’anfratto dell’anima dove scaturisce la pietà. La pietà e quell’amore speciale verso i nostri limiti, la nostre debolezze: verso la malattia fisica o mentale che risultano essere il richiamo più forte alla natura, all’origine, e dove entra prepotentemente in scena il sesso come fatto creativo.
Il sesso come estrema sintesi di piacere e morte, di esaltazione e bassezza, di trascendenza e istinto; il sesso come atto d’amore da offrire a chi è stato negato dall’educazione, dall’ipocrisia, è la missione della Signora dell’Acero Rosso.
Nell’assolo, la protagonista si rivolge ad un immaginario giudice argomentando la sua scelta di donare sesso a chi è portatore di handicap; per questo confuta un altrettanto fantasioso pubblico ministero, che ha tutte le domande del sentire comune e per questo ci rappresenta. Alla fine sarà anche per noi lettori, un momento per interrogarci sulla nostra morale: assolveremo o condanneremo la Signora dell’Acero Rosso?
Il libro scardina l’ipocrisia e gli schemi mentali con cui interpretiamo la realtà: il diritto al piacere, alla felicità, il sesso anche per un menomato…il sesso una espressione umana che non deve essere negata a nessuno. Il ‘non detto’ viene sbattuto in faccia a chi non avrebbe mai voluto dire.
La trasgressione è anche conoscenza e quella compiuta da Signora dell’Acero Rosso è un atto d’amore estremo verso chi soffre e lei offrendosi –nell’ambiguità di un gioco di parole- s’offre per riscattare un dolore ingiusto, come quello di nascere menomati, handicappati.
Nel libro vengono alla fine, aggiunti dei commenti diversi; uno di un laico (Franco Bomprezzi) e l’altro di un religioso (Don Fulvio Ferrari). Uno assolve la Signora e dice che avrebbe voluto conoscerla, mentre il religioso la condanna senza appello, per quei rapporti frutto di ‘indecenti compiacenze’. Per me quest’ultimo giudizio rivela il perbenismo, più della morale. L’indecenza, lo scandalo, lo squallore e l’oscenità è vista perché ci appartiene e riguarda tutti. Quando l’indecenza parla dice, non già quello che è fuori ma, quello che c’è nel nostro occhio.
Una lettura che emoziona e mette alla prova la nostra pietà.

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