Parte nona
Attilio e Mauthausen. Mio papà non mi raccontò molto della sua permanenza a Mauthausen. Attilio mi raccontò che dopo poco tempo era stato inviato nella vicina città di Linz, e poi nello stesso ospedale della città austriaca: un forte calo della vista lo aveva reso quasi cieco. La debolezza aveva attaccato gli occhi e una miopia già forte si era aggravata. In ospedale aveva ritrovato, con i tre pasti al giorno, la salute. Il riuscire a mangiare era la vera medicina. La fame era diffusa e la ricerca di cibo la costante occupazione quotidiana.
Non c’era altra preoccupazione: salvare la pelle e mettere qualcosa in pancia. Ma era difficile. Una volta mi raccontò, quasi piangendo, il ricordo di quando raccolse alcune mele selvatiche cadute da un albero vicino al campo, un militare tedesco lo voleva uccidere sul posto puntandogli il fucile contro, perché lo considerava un ladro. Per il reato di furto si poteva anche essere uccisi sul posto. Mio padre, pregò e pianse. Fu risparmiato, quel soldato tedesco si impietosì, ma l’orrore di poter essere ucciso per una mela selvatica lo accompagnò per sempre.
Il comandante Mauthausen, Franz Ziereis, era solito accogliere i deportati con questa laconica frase: 'Qui vi è solo un’entrata; l’unica uscita è il camino del forno crematorio'.
Mio papà non mi parlò invece della Scala della morte. Dell'esistenza di questa lo venni a sapere documentandomi da solo e attraverso racconti di altri deportati.
Per raggiungere la cava c'era una scala composta da 186 gradini. Quei 186 gradini furono raccontati in un saggio scritto dal giornalista Christian Bernadac che portava come titolo (Les 186 marches) I 186 gradini. Quei 186 gradini scavati in una parete della cava, poi lungo un sentiero che costeggia l'orlo del dirupo e sale fino sulla cinta della collina, sarà chiamata la scala della morte, la via del sangue e il dirupo il muro dei paracadutisti a scherno delle vittime che le SS e i kapò butteranno giù.
Chissà quante volte Attilio avrà percorso quel tragitto. Lui non me lo disse, ma quando nella sua vita sopraggiungeva il ricordo di quel luogo delle lacrime inumidivano i suoi occhi.
Lo stesso Christian Bernadac scrisse anche un secondo volume dal titolo Il nono cerchio- Mauthausen. In quel libro l'autore descrisse minuziosamente, con l'ausilio di documentazione originale costituita da disposizioni scritte, lettere, circolari del comando SS e testimonianze di reduci, quella che era la vita nel campo e nei sottocampi di Mauthausen, vera e propria fortezza del terrore. Nel libro si legge: 'Fortezza…contemporaneamente fortino e acropoli, muraglie gigantesche. Granito e cemento armato dominanti il Danubio; fili spinati e porcellana intreccianti un’insuperabile rete elettrica di protezione. Sì! La più formidabile cittadella costruita sulla Terra dal Medio Evo. Mauthausen dai 155.000 morti'.
Venni a sapere moltissimi anni dopo da testimonianze da chi era andato a visitare questi luoghi della memoria che in una cella c'era una scritta che diceva: Dio se ci sei dovrai chiederci perdono.
Si calcola che siano passati per il complesso dei Lager dipendenti da Mauthausen circa 230.000 deportati provenienti da tutto il mondo: politici, persone di altre religioni, ebrei, omosessuali, zingari, soldati prigionieri di guerra, criminali comuni. Di questi circa il 50%, ben 122.766 prigionieri, vennero assassinati.
Dall’Italia furono deportati a Mauthausen in oltre 8.000 (dei complessivi 22.204 uomini e 1.514 donne deportati nei campi di sterminio tedeschi): di questi 5.750, ben oltre il 50% non tornarono. I sestrini che vi passarono furono molti.
Ora quei luoghi come Auschwitz, Birkenau, Dachau, ecc. sono diventati luoghi della memoria; santuari del ricordo della sofferenza e della disumanità cui può giungere un uomo. All'interno si viveva la crudeltà come una normalità. Una crudeltà tanto efferata che riusciva ad annichilire un naturale odio o spirito di vendetta. Vittime e carnefici perpetuavano un gioco nel nome di una ideologia che aveva la morte come liberazione.
Passerà circa un anno prima che Attilio fosse nelle condizioni di far ritorno a casa, a Sestri P.. Con un lungo viaggio fatto per la maggior parte a piedi, ritornava a Sestri Ponente.
Fortunatamente rientrarono, con altrettante traversie, anche Mario e Bepin. Tutti abitavano a Sestri e avevano le loro famiglie.
Per leggere l'elenco di tutti i lavoratori Ex Deportati a Mauthausen, il 16 Giugno 1944, rilasciato dalla Prefettura di Genova, cliccare QUI. C'è anche il nome del luogo dove hanno trascorso la prigionia.
7 piatti di minestrone. 7 piatti ne ho mangiati: così ricordava il ritorno a casa e l'incontro con mia mamma e i miei nonni materni. 7 piatti di minestrone, uno dopo l'altro, che non riuscirono a colmare un vuoto, una ferita e una magrezza che, poi solo negli anni '70, raggiunta l'età della pensione con l'adipe e il sottomento ne testimoniarono la fine.
Penso che proprio in quei giorni, appena ritornato e congiuntosi con la moglie Angiolina, fui concepito io. Mi penso frutto di una notte d’amore molto intensa; c’era una fame di sentimenti, di sesso, di alimenti, di vita e di amore fuori del comune. La guerra era appena finita e cosa di meglio festeggiarla con una ubriacatura totale? Dopo nove mesi nascevo io. Era il 2 febbraio del 1946: madonna della candelora…
Attilio, al ritorno dalla Germania, aveva ripreso il suo posto nella San Giorgio e poco alla volta si ristabiliva con il lavoro una normalità sconvolta dalla guerra, dalla miseria, dal dolore di migliaia di morti violente. Ecco, ancora penso agli uomini comuni come Attilio che hanno attraversato quei periodi con una strana inconsapevolezza: avevano pochi anni quando diventarono Figli della Lupa e poi Balilla, conoscendo uno Stato totalitario che si prendeva cura di loro con schemi e riti fissi. L'Italia, in fondo era diventata una Patria da soli 60 anni, e solo in quel periodo la si sentiva presente e unificante.
Spesso ho pensato a quello che videro gli occhi di quelli che hanno vissuto nel periodo in cui i miei genitori avevano vent'anni. Chi ha visto la guerra e poi Auschwitz deve essere invecchiato di colpo. Era come se si tenessero tutti per il collo per non scappare e guardare. Dovevano raccontarlo. Dovevamo vedere anche noi, quelli arrivati dopo. Dovevamo tenere la testa rivolta indietro; ma fu per poco. C'era l'impellenza di guardare avanti. Dovevamo sopravvivere, costruire nuove fantascienze e inebriarci con nuove droghe dai nomi astrusi...
Ora si ha voglia di trovare negli altri dei nuovi barbari, si ha voglia di dire sempre che c’è un Dio solo nostro che ci protegge e ci salva. Si ha voglia, ma non serve. La loro e nostra salvezza forse è passata nel perderci.
D'altronde quel Gott mit uns dovrebbe farci pensare sempre. Quel Dio tirato sempre da una parte miete sempre delle vittime.
Quello che hanno visto quegli uomini in una vita, noi forse non riusciremmo a vederne in cento. Un salto quantico, nella storia millenaria dell’uomo, è divenuta una vertigine. Dai piedi scalzi di mio padre siamo passati ad auto superaccessoriate; dai pastrani invernali, alle microfibre poliuretaniche.
Ora viviamo a fianco di uomini che hanno visto la fine della Natura, ora che abbiamo la memoria virtuale, una memoria su disco, e abbiamo la possibilità di richiamarla con il semplice gesto di un dito. Con un click.
Attilio rimase vedovo a 44 anni con due figli (io e mia sorella Amelia -chiamata sempre Ines) e non pensò mai di risposarsi; d'altronde scelse una vita che gli piaceva: compagnie e ribotte. Una vita senza particolari patemi se non di salute: il fumo e qualche bicchiere di vino troppo negli anni si fece sentire.
Attilio è morto il 10 febbraio del 1981. Fu un infarto che lo colse sulle scale di casa. Nonno Angelo Boratto -cui io porto il secondo nome- lavorava in una ferriera a Sestri Ponente i suoi quattro figli lavorarono tutti alla San Giorgio di Sestri Ponente: Bepin, Mario e Aldo come operai meccanici e Attilio come fattorino.
La nonna Rosa Agostini era di Galliera Veneta e Angelo Boratto era di Castelfranco Veneto.
Seguirà parte decima