domenica, ottobre 31, 2004

Al Festival della Scienza

Per ricordare il centenario della nascita dello scienziato Giuseppe Montalenti, il Festival della Scienza 2004 ci ha dato, oggi sabato 30 ottobre, anche l’occasione di vedere la bella sala per conferenze del complesso monumentale di S. Ignazio.
Ad accogliere i partecipanti c’erano Pietro Greco e Alberto Piazza, era assente Gilberto Corbellini per motivi di salute.
Ha parlato per primo Pietro Greco, giornalista scientifico e saggista, illustrando l’intensa biografia di Montalenti accompagnata da molteplici interessi scientifici, cui il più ossessivo, in senso positivo, fu quello dell’evoluzionismo.
La grandissima opera storico e scientifica di Giuseppe Montalenti, si comprende subito, è stata fondamentale per far passare in Italia la teoria evoluzionista darwiniana e insieme al suo forte impegno volto a coniugare la cultura umanista con quella scientifica, che in Italia ha avuto grossi ritardi.
Montalenti fu sempre molto critico sulla posizione che la Scienza occupa nella cultura del nostro Paese. Egli non accettava la concezione che la cultura umanistica sia la depositaria di tutta la cultura, mentre la Scienza sarebbe un fenomeno che poco avrebbe a che fare con la cultura dello spirito, ma sostanzialmente con la conoscenza, attraverso la ripetizione di esperimenti in laboratorio, di ciò che avviene in natura. Per Montalenti la scienza è totale in quanto la comunicazione culturale coinvolge tutte le dimensioni del sapere: storico, filosofico, sociale…e la sua lungimiranza lo portò, primo in Italia, ad introdurre il tema dell’ecologia.
La Scienza è quindi una cultura vera, che afferma un valore di cultura totale. Poi, non è forse l’evoluzione biologica sempre in primo piano? Greco racconta per questo i rapporti con Benedetto Croce, colui che con il suo idealismo avversò quella cultura scientifica espressa da Montalenti come materialistica e positivista. Per Benedetto Croce l’uomo non evolve solo organicamente ma deve avere una sua ‘teologia’; oggi invece grazie a Montalenti e la sua attualità, sappiamo che l’incontro tra le varie culture e scienze accresce le conoscenze in generale, aprendoci nuovi orizzonti di ricerca. Insomma quanto evolviamo scientificamente e quanto filosoficamente? A questa domanda ci porta l’excursus scientifico di Alberto Piazza, docente di Genetica Umana, Biologia e Biochimica presso l’Università di Torino. Il prof. Piazza, che con la sua folta barba ricorda Darwin, ci ha parlato proprio del grande teorico dell’evoluzione della specie, della sua teoria, delle affermazioni scientifiche supportate da numerose scoperte. Il prof. Piazza ci ha raccontato anche dei ritardi, della incompletezza delle traduzioni, delle difficoltà culturali generalizzate dell’ambiente accademico italiano a conoscere e dibattere il grande tema dell’evoluzione umana per arrivare fino ad oggi e non poteva mancare l’accenno, in questa sede, alla posizione del ministero della scuola su Darwin: un momento di attacco alla teoria di Darwin, con il divieto di insegnarlo nelle prime classi. Bisogna dire che quella di Darwin oggi non è più una teoria, ma un’ipotesi confermata da numerose conoscenze ottenute in laboratorio. Oggi abbiamo anche la scienza genetica, abbiamo più tecnologie e mezzi per superare certe visioni che erano per forza di cose parziali: bisogna però stare sempre attenti ai fondamentalismi di ogni parte; c’è n’è uno anche positivista che insulta l’altra parte e a queste posizioni dobbiamo rispondere – dice il prof. Piazza- con serietà di argomenti e prove che mano a mano ci portano paradossalmente a trovare una unità di ragioni: quelle che Montalenti aveva da subito auspicato.
In conclusione per rispondere alla domanda di come evolviamo, ci vorrebbe forse un test, invece Piazza ci ha letto un piccolo scritto di genetica, perché spiega è interdisciplinare; è una scienza che unisce diverse conoscenze: matematiche, statistiche, mediche, biologiche…ecco un metodo e insieme una risposta. La più scientifica possibile e forse anche la più umana.
Il cammino è ancora lungo, ma in questa ottica di cammino è bello sapere che ci si può tenere la mano per non cadere: insieme scienziati e filosofi. Montalenti eccezionale divulgatore delle tematiche scientifiche lo aveva sostenuto e storicizzato con le sue opere molto tempo fa.

sabato, ottobre 23, 2004

Davanti agli sbarchi

Davanti agli sbarchi di disperati sulle nostre coste io non ho da offrire che lacrime e le uniche parole che penso sono: se questo è un uomo.
Questi africani morti e redivivi, che hanno affrontato il salto verso la nostra terra, che non so quanto non sia anche loro, sono paradossalmente la nostra speranza. Il loro anelito di fuggire dalla miseria, dalla crudeltà di guerre che noi chiamiamo di democrazia, sono la speranza per un mondo migliore; la speranza di riconoscere uomini e donne arrivati da «un’altra vita» per raccontarci che la «nostra» non è reale, non è sicura e soprattutto non è immortale.
Dopo di ciò fanno paura quegli uomini, esponenti di un potere istituzionale che si dice democratico ma mostra il volto arrogante e razzista, che parlano di chiusura, di reati, di delinquenza. Loro, che si sono riempiti la bocca di garantismo, di libertà e progresso, poi hanno ridotto i diritti, cancellato il reato di falso in bilancio per crearne uno inesistente di clandestinità, ridotto in nero un lavoro ed invisibili quei lavoratori che lottano per la sopravvivenza. Loro, impegnati sull’entità delle tasse, sui condoni ai furti e alle ricchezze nascoste, hanno senza quei disperati in verità già perso tutto. Il bene posseduto è un bene provvisorio quanto la vita che non si può negare a nessuno.

venerdì, ottobre 22, 2004

a vita bassa

In un articolo, dei giorni scorsi su un quotidiano, una quindicenne diceva di voler comprare un paio di mutande Dolce e Gabbana da indossare sotto i jeans a vita bassa facendo uscire bene la scritta e poi andare a passeggio sulla Tuscolana insieme ad altri ragazzi. Alle obiezioni del professore di scuola che le faceva osservare quanto fosse triste ripetere le scelte di tutti, rinunciare ad avere una personalità, arrendersi a una moda pensata da altri, la quindicenne replicava: "Professore, ma non ha capito che oggi solo pochissimi possono permettersi di avere una personalità? I cantanti, i calciatori, le attrici, la gente che sta in televisione, loro esistono veramente e fanno quello che vogliono, ma tutti gli altri non sono niente e non saranno mai niente. Io l'ho capito fin da quando ero piccola così. La nostra sarà una vita inutile. Mi fanno ridere le mie amiche che discutono se nella loro comitiva è meglio quel ragazzo moro o quell'altro biondo. Non cambia niente, sono due nullità identiche. Noi possiamo solo comprarci delle mutande uguali a quelle di tutti gli altri, non abbiamo nessuna speranza di distinguerci. Noi siamo la massa informe".
Da sempre penso ci sia nei quindicenni, per non dire altre età giovanili e no, lo spirito di branco, di emulazione di modelli definiti di successo, di appartenenza e ricerca di mode. Poi esiste anche un altro problema che riguarda, oltre che il costume e la psicologia di massa, anche il perché del bisogno di celebrità, di successo che c’è in tutti e fa sentire frustrati e inutile chi non riesce a raggiungerlo.
Oggi la televisione dimostra tutto il suo potere attrattivo e di risposta ad un bisogno che è profondo e se analizzato bene risulta semplice: la conferma di esistenza. Già, abbiamo bisogno che qualcuno ci dica sempre che viviamo, ci siamo e che siamo noi. Per soddisfare questo semplice bisogno servono le ‘carezze’ di ogni tipo, tanto che è meglio uno schiaffo, un rimprovero, all’indifferenza.
In Tv succede che si diventa qualcuno, si diviene celebri, in breve tempo senza nessuna particolare dote: basta apparire; basta quello per essere riconosciuti, e con questo riconoscimento ricevere le famose carezze utili a confermare l’esistenza, l’essere in vita.
La mancanza di celebrità, quello che manca in sostanza alla quindicenne, fa sembrare la vita inutile. Pare che le carezze e quella quantità necessaria a dire che ci siamo sia dovuta solo a chi è celebre, al divo, allo sportivo vincitore, il resto è nullità. Ecco spiegato forse anche la corsa a diventare ‘veline’: pseudo ballerine, cantanti, figurine utili a rendere la scenografia festosamente sexi; metterci la faccia e il ‘sedere’ rende molto celebri.
Per me avviene questo perché si è travisato e ricevuto all’origine l’insegnamento sbagliato su ciò che è l’amore. L’amore è la vera medicina che guarisce il bisogno di confermare l’esistenza e regala le più belle, profonde e durature carezze.
Ma non bisogna scoraggiarci: amare è un’arte e si deve imparare a proprie spese. Allora si comprenderà che diventare celebri, non vuol dire amare ed essere amati, ma sentire di più questa mancanza; sentirla al pari di chi non lo è, ed è forse per questo più vicini alla vera arte. L’arte di amare.

martedì, ottobre 19, 2004

La qualità degli uomini

Si possono avere idee di destra o di sinistra ma in fondo quello che conta è la qualità degli uomini; è il rapporto con il proprio sé, che si trasmette nelle relazioni con gli altri determinandone poi i comportamenti, che fa misurare la bontà di questi ultimi.
Allora in fondo il vero discrimine tra gli uomini e i diversi schieramenti ideali passa attraverso caratteristiche umane non indifferenti.
Non ci sono in questo senso allora “buoni” o “cattivi”, “bravi” o “stupidi”, ma in sostanza solo innamorati della propria immagine ed esclusivisti della ragione, predicatori, avventurieri, bugiardi, insaziabili e avidi di potere.
Tutto questo, chiaramente per i politici, si nasconde dietro il perseguimento del servizio comune. Sì, questi ultimi dovrebbero essere uomini generosi, di qualità, che si mettono a disposizione per risolvere i nostri problemi di convivenza ricercando la sottile arte del “male minore nell’interesse maggiore”. Ma è così?
Osservateli bene i politici o i detentori di cariche pubbliche e ditegli un preventivo grazie: si sono messi a nostra disposizione, così almeno si pensa; poi non guardategli la ricchezza del portafogli ma quella dell’anima, e lì casca l’asino. Quanti di questi conoscono il dolore del peccato? Quanti dovrebbero preventivamente chiedere perdono per non conoscere abbastanza di loro, della vile natura, prima di aiutare noi?
Ecco, a molti di loro manca la compassione, una pietà per loro stessi che li aiuterebbe ad averla per gli altri.
Essere eroi non è una qualità e quando certi uomini parlano, prima dovrebbero interrogarsi un po’. Dovrebbero essere degli straordinari interrogatori che più di risolvere i nostri problemi imparassero a risolvere i loro e poi insegnassero a chiederci perché.
Ecco una qualità, una qualità degli uomini, che aiuterebbe il mondo.


sabato, ottobre 16, 2004

Saggio sul linguaggio del Cav.

Con le continue ‘battute’ di Berlusconi e dei suoi ministri la questione del linguaggio, analizzato nel libro ‘Il linguaggio e la retorica della nuova politica italiana’, scritto da Amedeo Benedetti per la Erga Edizioni, è sempre attuale. L’autore, del libro in questione, Amedeo Benedetti è uno studioso attento alla comunicazione e alle forme immaginative che dopo aver scritto un saggio su il linguaggio delle nuove Brigate Rosse, ora si è cimentato in questo studio attento alla comunicazione politica in generale ed in particolare a quella del leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi.
Con l’avvento di Berlusconi nel panorama politico italiano c’è stata una rivoluzione dell’uso del linguaggio: tutto diventa diretto. Prima si parlava il ‘politichese’ una comunicazione arzigogolata piena di giri di parole inconcludenti e incomprensibili; era un linguaggio di chi non voleva farsi capire, una sorta di codice tra addetti ai lavori e che gli stessi operatori dell’informazione, i giornalisti, stentavano a decifrare. Ora invece c’è un linguaggio semplice, diretto, povero di contenuti che semplifica i problemi ma non li risolve. Prima le promesse venivano fatte come impegno di un intero partito, delle forze politiche e non venivano mai mantenute, mentre addesso vengono fatte con l’impegno personale, con il «ghe pensi mi», ma ancora regolarmente non vengono mantenute. In sostanza è cambiato il linguaggio ma non i vecchi vizi della politica italiana.
Berlusconi è allora il grande comunicatore? Per l’autore del libro lo è chi sa convincere, chi riesce a portare sulle sue posizioni gli altri e il cavaliere in parte lo è ma sconta anche il vuoto, l’assenza di contenuti. Quanto può durare la banalità? Quanto può continuare a convincere la comunicazione di Berlusconi e il suo uso delle parole che privilegiano l’impolitico? Una cosa balza agli occhi di tutti: il linguaggio della nuova politica non risolve i problemi: è un linguaggio vuoto. La politica di Berlusconi si riduce a poche frasi: Giù le tasse - Più libertà – Via i comunisti. Se c’è qualcosa che differenzia la destra dalla sinistra è che la destra non fa analisi, non si interroga. La destra usa solo il linguaggio dell’ottimismo come la strada principale per fare aumentare i consumi, gli investimenti, il progresso: un giro di solo parole.
Nel saggio di Amedeo Benedetti si sono analizzati i meccanismi di comunicazione usati da Silvio Berlusconi e approfonditi con scrupolosa cura nelle oltre 200 pagine del libro, che raccoglie 750 citazioni del personaggio in questione.
Ecco qualcuna delle citazioni: «Quando Bossi dice che sono peronista forse si riferisce alla birra Peroni» (1994); «Arafat mi ha chiesto di dargli una tivvù per la Striscia di Gaza. Gli manderò Striscia la notizia» (1997); «E’ vero, con la Finanziaria si dà con una mano e si toglie con l’altra. Qualcuno ha detto che più di una partita di giro è una partita di raggiro» (1997); «Al Partito Popolare Europeo l’altro giorno ho fatto ridere tutti i delegati quando mi sono appropriato di una battuta di Woody Allen e ho detto: Il comunismo è morto, ma anche la socialdemocrazia sta poco bene» (1999); «Ecco un uomo che ha sempre le mani in pasta: è ginecologo» (2003).
la semplificazione del linguaggio cerca di semplificare anche i problemi che sappiamo invece complessi; quanto può durare e risultare vincente questo linguaggio e novità nella politica?
Il libro domanda questo e in parte cerca di rispondervi. A voi leggerlo e trarne le vostre conclusioni.

Il linguaggio e la retorica della nuova politica italiana
Amedeo Benedetti
Erga Edizioni, 225 pagine, 17 euro


giovedì, ottobre 07, 2004

necessità del male?

"Il comunismo è stato un male necessario in qualche modo all'uomo e al mondo". Così Giovanni Paolo II definisce la dottrina politica che affonda le sue radici nel pensiero di Marx e Engels nella sua nuova opera Memoria e identità.
Interessante questo punto di vista di chi è considerato, per il verbo, 'infallibile'.
Io semplicemente che nel comunismo ho creduto senza infallibilità, ma proprio per la fallibilità dell'uomo insieme delle sue capacità ad essere qualcosa di diverso: superiore, morale e benefico per l'umanità tutta; lo penso forse ancora un bene possibile.
Intendiamoci, sappiamo che nel nome di grandi ideali e convinzioni di giustizia, moralità, si sono compiute le più atroci nefandezze contro l'umanità, per cui nessuno è immune dal male e in specie del proprio pensare con delle certezze; ma il comunismo, quello trasmesso anche originariamente e originalmente da Gesù Cristo, penso sia ancora un valido ideale per una nuova umanità.
Vive e c'è poi quel male più grande ed infinitamente diffuso che è quello dell'inconsapevolezza, dell'ignoranza, del voltare la testa e lo sguardo per non vedere, insieme alla mancanza di un pensiero 'altro', 'diverso' e 'trascendente' la nostra condizione contingente all'economia e al mercato.
Per questo considero ancora fondamentale l'opera di Hannah Arendt su 'la banalità del male'.
Il comunismo ha fornito diversamente a molti uomini sfruttati, oppressi, vilipesi ed emarginati, uno strumento per riscattare la propria condizione e trovare una dignità negata da ideologie supportate dalla legge del più forte, del possesso e dell'arroganza. Cristo aveva fornito con la sua vita e le sue parole il primo insegnamento spirituale di libertà e speranza all'umanità intera. Il vero e unico miracolo di Cristo, utile agli uomini del suo tempo e poi rivelatosi utile sempre, fu quando affermò che tutti gli uomini sono uguali, sono fratelli e proprio negli umili è la salvezza del mondo: era, per l'epoca in cui Cristo disse quelle cose, qualcosa di inimmaginabile; la cultura del tempo e chi in quella cultura greco-romana ed ebraica era nato non aveva la possibilità di pensare diversamente. Allora si può dire che anche quella Croce forse fu un male necessario?

domenica, ottobre 03, 2004

Ho voglia di innamorarmi


“Ho voglia d'innamorarmi - di una donna - di un animale - di una borsa di coccodrillo - di uno straccio di ideale - ho voglia d'innamorarmi - di qualcosa che non c'è...”, così cantava Baccini ed esprimeva bene un bisogno reale.
La voglia di innamorarsi, l’entusiasmo di affrontare una cosa nuova, di ritrovare la spontaneità e non averne timore è la cosa più bella cui possiamo aspirare. Che bello saperci vedere come bambini, sapere cogliere l’autenticità del nostro carattere. Spesso, se non sempre, invece giochiamo giochi pericolosi e finti. Cerchiamo surrogati all’amore.
Con l’innamoramento invece affrontiamo indifesi la vita con un progetto per il futuro: siamo pronti anche a soffrire per sentire il bene dell’amore; siamo pronti a giocare con l’amore per l’amore.
Se guardiamo con occhio attento a cogliere quello che di autentico, di bello, ognuno porta con sé, diventano amabili tutti. Allora si comprende che nessuno è in fondo detestabile, ma è come un bambino che vuole giocare, perché in quello stesso gioco non solo è insito il bisogno d’amore ma lo stesso bisogno per la vita e dell’altro ad esprimerlo.
Poi cambiando canzone, con ”Everybody Loves Somebody” si ritorna allo stesso concetto: ognuno ama qualcuno, anche per un momento. Ognuno cade nell’amore e ognuno trova qualcuno. Se lo desidera e sogna, ad ogni ora e minuto, si ritrova tra le braccia l’amore.
Allora auguri d’amore a tutti. Sempre. Poiché: “Può capitare di non essere amati, ma la vera disgrazia è non amare" (Albert Camus)