Da “L’ombra di Mao” di Federico Rampini
Il Dalai Lama è la figura più odiata dai governanti cinesi. Perfino il suo volto è all’indice: l’onnipresente polizia cinese arresterebbe chiunque dovesse esibire una sua foto. Ma nessuna censura, nessuna persecuzione è riuscita a sconfiggere la religiosità diffusa, mistica e corale del popolo tibetano. Lo spettacolo dei pellegrini che invadono quotidianamente Lhasa oggi sembra “normale” perché Pechino ha ripristinato – alle sue condizioni – la libertà di culto. In realtà questo spettacolo è una dimostrazione impressionante di resistenza passiva, alla luce di quel che i buddisti hanno dovuto soffrire. Dopo l’invasione militare cinese del 1950, la tolleranza verso le tradizioni locali durò solo pochi anni. Nel 1959 una prima svolta estremista di Mao Zedong portò all’imposizione dell’ateismo di Stato. Dal 1966 al 1975la Rivoluzione culturale intensificò le violenze contro la religione, con i famigerati “processi di piazza” ai fedeli. Il Tibet fu vittima della campagna più feroce: i comunisti cinesi uccisero 1,2 milioni di persone, un quinto dell’intera popolazione. Ma la tenacia dei tibetani ingannò perfino il leader più lucido e astuto della Repubblica popolare, Deng Xiaoping. Nel 1979, insieme con la svolta politica moderata, la normalizzazione delle relazioni con l’Occidente e l’avvio delle riforme di mercato, Deng allungò un simbolico ramoscello d’ulivo al Dalai Lama invitandolo a mandare suo fratello in visita in Tibet per constatare che le condizioni di vita dei suoi concittadini erano migliorate. Nei piani di Deng quell’apertura era il preludio per un negoziato con il Dalai Lama da posizioni di forza, per convincerlo a tornare in patria dopo essersi sottomesso all’autorità centrale di Pechino. Secondo le informazioni che Deng riceveva dal partito comunista locale, i tibetani ormai erano assuefatti alla dominazione cinese, e i progressi nel benessere materiale appagavano la popolazione. L’errore di calcolo di Deng fu clamoroso. La visita del fratello del Dalai Lama scatenò un delirante entusiasmo popolare, le manifestazioni di gioia degenerarono in cortei nazionalisti al grido di “Tibet indipendente” e “Han go home” (gli Han sono il ceppo etnico dominante della Cina). Ogni dialogo con il Dalai Lama è stato troncato. In compenso la pratica del buddismo è tornata a fiorire, sia pure con un “numero chiuso” che contingenta il reclutamento dei nuovi monaci: questo non impedisce che oggi nei monasteri di Lhasa molti di loro siano giovanissimi, segno che nessuna secolarizzazione è riuscita a inaridire le vocazioni. Sul fronte economico Pechino ha accelerato gli investimenti per dotare il Tibet di infrastrutture efficienti, dagli aeroporti alle autostrade, e per agganciarlo al boom economico cinese. Nei quartieri nuovi di Lhasa i grandi viali moderni oggi pullulano di gru per la costruzione di palazzi, dilagano le pubblicità e le insegne commerciali al neon, gli shopping mall, i negozi di elettronica e di moda. Ogni giorno che passa Lhasa assomiglia un po’ di più a tutte le altre città della Cina. Questo è vero anche nella composizione demografica: per accelerare lo sviluppo economico Pechino ha incoraggiato l’immigrazione degli Han, più istruiti e più intraprendenti. Eppure la marea dei pellegrini che sommerge Lhasa a tutte le ore in tutte le stagioni dell’anno, è lì a ricordare che questo è un luogo diverso. Mai nella storia millenaria del Tibet, il suo popolo aveva dovuto subìre una invasione etnica come l’attuale immigrazione dei cinesi. Il buddismo locale è pacifista, il Dalai Lama si è sempre rifiutato di appoggiare qualsiasi lotta violenta. Ma la religiosità tibetana ha già dimostrato in passato di saper custodire un nazionalismo profondo, che riemerge in momenti inaspettati e nelle forme più imprevedibili. Come nel Canto dell’Antilope Tibetana, che il gruppo hard rock Vajara intona a tutto volume all’una di notte, nella discoteca gremita di teenagers entusiasti: “Sotto questi cieli azzuri / Sotto le nuvole bianche / Vivono le più belle creature dell’universo / All’improvviso siete arrivati voi / Con le vostre armi e la vostra avidità / State uccidendo l’ultima antilope / Ci state divorando / Lasciateci vivere / Lasciateci vivere”.
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