martedì, gennaio 11, 2005

Fight Club

Ho visto in questi giorni un film in dvd che mi era sfuggito ed un amico mi aveva segnalato: Fight Club. Club di lottatori, picchiatori, incassatori, club della sovversione e di un nuovo messaggio? Fight Club potrebbe essere il racconto della depravazione dei sentimenti, invece no è la sua ricerca. Ancora una volta si trova emblematicamente quello che si cerca. Cosa vuole Jack, il personaggio principale del film di David Fincher? Vuole emozioni. Jack cerca amore ma ne ha paura; cerca semplici carezze ma trova pugni. Allora è meglio un pugno, è meglio sentire l’altro in questa maniera piuttosto di non sentirlo affatto o sentirlo nel ruolo sociale, vederlo intruppato in convenzioni. La crisi dei personaggi che raccontano la storia del film, tratto da un romanzo di Chuck Palahniuk, è la stessa che avvolge la società dei consumi.
Sentirsi vivi, ecco, in nessun posto ci si sente vivi come al Fight Club, perché in nessun posto in realtà si vive. Il masochismo qui assume la dimensione soprattutto maschile; la componente femminile –interpretata da Helena Bonham Carter – è sesso e invadenza, il resto manca. Il dolore è ricercato; diventa paradossalmente l’unica forma di potere: siamo noi a procurarcelo e non a subirlo.
La generazione che si trova nel Fight Club è, come dice Tyler Durden, quella che non ha avuto grandi guerre da combattere o grandi depressioni da affrontare. Per questo si impegna a fare un grande salto spirituale: quello che è la contestazione globale, quello che in un certo senso ogni generazione vive, come uno smarcamento naturale da chi li precede. Ma qui è stravolto da un altro senso: i personaggi del racconto assumono la dimensione caricaturale, ne sono un aspetto in negativo di quello che rifiutano. Alla fine con l’immagine anticipatoria e quasi profetica si assiste alla distruzione dei grattacieli: cadono le Twins Tower. Vince il nichilismo. Ancora Spengler?

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