mercoledì, gennaio 26, 2005

I sommersi e i salvati di Primo Levi

In occorrenza del 27 gennaio, giornata della memoria, voglio ricordare un libro di Primo Levi: I sommersi e i salvati. Per Primo Levi sono bastate solo due generazioni per far sì che l’esperienza dei Lager nazisti fosse sfumata, fosse storicizzata; resa lontana e muta. Quel sogno ricorrente, fatto dai detenuti, di non essere creduti, di non potere essere i protagonisti di un orrore tanto grande da non essere considerato vero, non si è avverato; detto questo, il libro parte con una considerazione: la memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace.
Uscito un anno prima della sua morte per suicidio, nel 1986, ‘I sommersi e i salvati’ è una rilettura dell’esperienza di Auschwitz, dopo quasi 40 anni dal libro: “Se questo è un uomo”. I testimoni veri del libro sono ‘i sommersi’, coloro che sono morti; coloro che anche se in possesso di carta e penna, non avrebbero scritto nulla perché la loro morte era già avvenuta, prima di quella corporale.
Il mondo del lager, descritto nel libro ‘Se questo è un uomo’, non poteva essere letto con una semplificazione: da una parte il bene (le vittime)e dall’altra il male (i carnefici). Primo Levi ricorda, che già al primo impatto, chi si aspettava solidarietà dagli altri detenuti rimaneva sorpreso: ognuno pensava per sé, e chi rubava cibo, chi riusciva ad avere privilegi era quello che aveva delle possibilità per sopravvivere; era un ‘salvato’.
Levi con questo libro sostiene che l’aver concepito le squadre speciali, ovvero organizzato gli stessi detenuti a svolgere il lavoro sporco della carneficina, è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo. Con le squadre speciali il senso di colpa si spostava sulle stesse vittime. Non c’erano più innocenti. Questa malvagità estrema deve essere scandagliata fino in fondo poiché potrà in futuro coinvolgere ancora noi stessi e i nostri figli. L’orrore e la disumanità di quel lavoro che fa impazzire, genera una sofferenza così grande che impedirebbe di vivere, così fa abituare; fa un ‘salvato’.
Il libro continua ad analizzare la zona grigia della ‘banalità del male’, cui aveva già scritto Hannah Arendt, di quegli uomini che «se non lo facessi io, lo farebbe un altro peggio di me». Uomini di corte, servitori del regime, con una rappresentazione di sé, dell’immagine di prestigio che fa scendere all’inferno con trombe e tamburi, con l’abbaglio del potere. Perché il potere è una droga che richiede sempre l’aumento delle dosi.
Al centro del libro c’è poi l’interrogativo di come ha potuto quel popolo tedesco, fare quello che ha fatto. Ancora la risposta è quella della banalità del male; di quanto orrore si nasconde dietro il conformismo, l’ideologia di un popolo ordinato, retto e superiore. Un popolo che assomiglia e crede molto in quel leader che lo organizza, levandogli il pensiero e l’interrogazione. Non la responsabilità.


Nessun commento: